Calcio mundial

GVT63730atleti.jpgCome si dice, ognuno si gratta i suoi. Di guai naturalmente. E se, pur grattando con impegno, non si riesce a vincere niente che possa farteli risolvere ‘sti guai, meglio cercare un metodo sicuro per dimenticarli almeno temporaneamente. Anch’io li ho avuti, li ho e li avrò.

E la costanza con cui gli attuali si fanno avanti e reclamano udienza corre in parallelo col ricordo di quelli di allora. La medicina per il temporaneo oblio? Uguale a quella di allora, antica, utile, se presa con cautela, come l’aspirina: il calcio. O, meglio ancora, il calcio mundial. Messico ’70, il problema era lo schieramento che avrebbero assunto, a scrutini fatti ma non ancora annunciati per pura pretattica, i numeri assegnati a quel manipolo di materie contro le quali avevo giocato per tutto il corso dell’anno. Mi venne spontaneo affidarmi alla scaramanzia, scommettere sulla buona sorte, farmi prendere in carico dallo “stellone” così di moda a quei tempi, quello alla cui luce gli azzurri avevano trovato la strada per arrivare in semifinale con la Germania: se battiamo i tedeschi sarò promosso. L’arbiter dei miei destini scolastici non la pensava così, forse del calcio non gli importava nulla. Ma funzionò l’oblio. Tra la mezzanotte e le due più qualche minuto non ci fu aoristo sbagliato, pari a un fallo vigliacco da dietro o a un tocco mano in area, o desolante interrogazione a scena muta o quasi che riuscì a portarmi via dall’Azteca. La Germania era bianca, l’Italia era grigia, come i momenti attuali. Il televisore cui stavo di fronte era un bianconero, maxi mobile di innumerevoli pollici, i miei che avevano toccato Riva, Rivera e Bonimba pregandoli di fare un altro gol ai crucchi: come domandassi a un prof l’ennesima domanda cui avrei sicuramente risposto per salvare la media. Il bianco e nero era il colore della commedia italiana, Alberto Sordi il suo profeta. E come l’Alberto nazionale qualcuno in famiglia si stava godendo lo stesso spettacolo a colori. Si trattava di un mio fratello, momentaneamente distaccato presso la dimora di parenti abbienti, che viveva la sua avventura, se d’oblio non so, interpretando la parte nobile di colui che la mattina successiva avrebbe potuto raccontare il verde squillante dell’erba del prato e lo sconforto venato di couperose sul viso di quei tedeschi che si apprestavano a consegnare ai propri figli la maledizione di non riuscire a battere gli azzurri quando in ballo c’è qualcosa che conta. Maxischermo vero, colorate fin le parole dei telecronisti. Forse valeva la pena di invidiarlo un po’, essere gelosi della sua colorata vacanza, addossargli una spensieratezza arbitraria: quella di chi, oggi come allora, poteva pensare con soddisfazione che la vita sarebbe stata a colori anche il giorno dopo e quello dopo ancora. E non solo il mondiale ma anche la più stupida delle pubblicità, d’oro e non grigie le permanenti delle annunciatrici. O forse valeva la pena rovinargli la festa, ricordargli che stava vivendo una parentesi soltanto, che il giorno dopo sarebbe ritornato a guardare il mondiale in bianco e nero e che forse l’avrebbe gustato di meno.

Andrea Vitali

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